Cultura e Società

I petri i mulinu

Vincolo archeologico sul litorale al Campo di Sotto

I lettori ci scrivono, riceviamo e pubblichiamo

Tropea: barriera di granito e cava pietre di mulino - foto Antonio De Luca
Tropea: barriera di granito e cava pietre di mulino – foto Antonio De Luca

La Direzione generale per i beni paesaggistici della Calabria tramite la Soprintendenza  per i Beni Archeologici della Calabria Prot. 16018  del 10-11-2011, ha fatto pervenire al Sindaco di Tropea ed a tutte le altre Autorità a diverso titolo competenti, una nota avente per oggetto: “Comune di Tropea (VV), località Petri i Mulinu  Vincolo archeologico del tratto di costa foglio 1 particelle 1/parte ( per 790 mq), 3,4,1087, 6 parte ( per 2265 mq ), 7, 8, e corrispondente tratto di mare. Vincolo Archeologico ai sensi dell’art. 4 del D. Lgs 42/04”.

Nel tratto di costa indicato con il toponimo di “Petri i Mulinu”  di cui si allegano foto aerea (alleg. n. 1) e stralcio di foglio catastale (alleg 2), è stata rinvenuta una cava antica per l’estrazione del granito e la produzione di macine di grandi dimensioni, che riveste notevole interesse archeologico. Il piano della cava antica è ubicato sulla piattaforma costiera ed è delimitato dalla parete rocciosa della falesia.
L’impianto, perfettamente conservato, occupa numerose piattaforme rocciose in calcarenite sulle quali si susseguono, sena soluzioni di continuità, le tracce  di tutte le fasi di realizzazione delle macine in stato di semilavorato, ovvero distaccate dalla vaschetta di cavatura. Alla estremità di una delle piattaforme rocciose, inoltre, sono state individuate due possibili bitte di ormeggio ricavate con la stessa tecnica di scavo utilizzata per le macine, probabilmente adibite allo stazionamento delle imbarcazioni per il trasporto dei  materiali lapidei.
Le prospezioni subacquee condotte nel tratto di mare circostante, hanno portato, anche al ritrovamento di tre macine sommerse.
Per quanto sopra, ai sensi dell’art. 4 D.L.vo n. 42/2004 sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico, si dichiara l’importante interesse archeologico dell’area sopra indicata e del corrispondente tratto di mare, evidenziati in quadrettato nella planimetria allegata.
Ritenuto necessario che l’opera descritta venga opportunamente tutelata nell’ambito di collaborazione definita con decreto interministeriale del 12 luglio 1989 del Ministero della Marina di concerto con il Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali, al fine  di evitare danni al patrimonio archeologico dell stato, si chiede alla Capitaneria di Porto di Vibo Valentia di voler emanare apposita ordinanza che, in attuazione del presente provvedimento, disponga:
-che non venga apportata alcuna trasformazione o alterazione  allo stato originario dei luoghi,
-che venga vietata la balneazione nell’area costiera della cava,
-che venga vietato l’ancoraggio e lo stazionamento di imbarcazioni all’interno dell’area marina,
-che venga vietata la pratica della pesca a strascico e ogni attività subacquea ( pesca e immersioni con bombole),
– che qualsiasi progetto di opere la cui realizzazione possa prevedere modifiche o interventi a carico della linea costiera  e/o del tratto di mare in oggetto, venga sottoposto al preventivo nulla osta di questa Sovrintendenza, che ne valuterà l’eventuale impatto sul bene vincolato.
Vengono qui di seguito elencate le coordinate , latitudine/longitudine, che definiscono l’area marina per la quale si richiede il vincolo archeologico:

1   In basso a sinistra, lato Capo Vaticano

N 38° 22’57”; E 15° 52′  1847”

2   In basso a destra, lato Tropea

N38”40′ 23.05′ ; E  15°  52′ 38.67”

3   In alto a destra, lato Tropea

N 38° 40’28.20”; E 15° 52’39.60”

4   In alto a sinistra, capo Vaticano

N 38° 40′ 27.17”; E 15° 52’19.11”.

Tutti i rilevamenti sono stati eseguiti con strumenti Garmin GPS 60 navigatore.Si ringrazia per la cortese collaborazione e si porgono distinti saluti.

IL SOPRINTENDENTE

 (firmato) Dott.essa  Simonetta Bonomi           

Piazza De Nava, 26 – 89122 Reggio Calabria
Tel. 0965 898272/ 81225/ 812256.

 

Seguono in due distinti allegati la ripresa satellitare e la planimetria catastale del foglio n.1 di Tropea con le particelle interessate al vincolo e nella nota elencate.

L’area va da sotto il promontorio che il Sergio (unica fonte nel 1720 – Chronologica Collectanea De Civitate Tropea eiusque territorio-, notando bene l’ultima parola)  chiama Riaci seu Pirrello  (con scolpita sulla punta un perfetto elefante sopra gli scogli granitici  emergenti dal sottostante contiguo mare, da qui il nome di Cacaricà (non di Riaci,  toponimo dal torrente omonimo che qui arriva al mare e si estende solo a sinistra dello stesso dalla marina al piano), alle piattaforme basse che verso Tropea seguono lo scoglio – Petri i mulinu- in senso proprio e proteso in disfacimento verso il mare a maestrale.  Si precisa la situazione in rapporto al tema ed ai luoghi proposti al vincolo con le condizioni di fatto partendo da est lato Tropea, dividendo in sub zone ed i numeri rimandano alle foto :
1)  Comprende le piattaforme basse (che il mare sta demolendo spezzandole) fino allo scoglio che penetra, proteso e mutilato nella punta  screpolato nel mare, oggetto di pellegrinaggio estivo nella sua grotta interna isolata dalla luce che vi arriva riflessa e flette i corpi sommersi coprendoli di bianco candore che le ha fatto meritare l’appellativo di – Grotta dello Scheletro-. Altri nomi sono stati inventati, ad essa si accede con piccola apertura sul livello dell’acqua lato Tropea e, tranquillitate maris, si affollano le visite con necessario alternarsi. Su tutto il sito tracce di estrazione da calcarenite e sotto la rupe segni esigui di lavorazione del granito per gradini, che era qui attività residuale per scarsissima presenza dello stesso. Un blocco con i gradini abbozzati è presentato nella copertina di fondo della memoria per- Santa Domenica di Tropea – del 1903. Figure 1-2-3- 3a -3b-. Dal masso di granito come si rinviene adesso possono essere stai ricavati dei gradini e su di esso si potrebbe ancora continuare, come pure a scopo didattico si può operare l’estrazione di una –pietra- con tutte le fasi fino alla sua fuoruscita dalla buca e filare per le Scuole tutta l’operazione: procedura normale. Sullo sfondo la rupe a lunghe strisce orizzontali seghettate ci dichiara la natura della sua formazione a libri sovrapposti con diversa sporgenza dal piano di appoggio ed all’interno con i fogli ancora di differente larghezza e consistenza organica, per come si sono determinati nei milioni di anni e le fratture che interrompono a tratti la continuità delle stesse strisce testimoniano i movimenti del sottosuolo che si trasmettono in superficie. L’insieme anche ed il materiale organico imprigionato permettono alla geologia una datazione esatta sulla loro epoca ed origine, anche in rapporto al tipo di materiale che i fiumi depositavano nel fondo del mare, quando tale roccia alta ora50 metri, si trovava negli abissi.
2)  Seguono quasi cento metri di sabbia non interessati al problema, qui il mare negli ultimi venti anni si sta portando a contatto con la rupe contro la quale in passato ha già lasciato i segni del suo arrivo con ampio ingrottamento, prima della ritirata, nel quale sta per rientrare, come evidenzia sempre la figura 2.  In tale tratto ha demolito una bassa barriera di fragile roccia arenaria come non aveva mai fatto, segno che i parametri di interfaccia con la battigia sono cambiati a suo favore.
3) Al termine un promontorio si riporta nel mare, perché protetto dalla erosione dalla sua base di dura calcarenite, che pero è disposta a faglie verticali che tagliate alla base cedono appoggiandosi sgretolate nell’acqua. Tale fronte di appena dieci metri ha il mare aperto davanti con a fianco gli scogli  Lanterna ed Altaretto: ritirata lenta ma inarrestabile dove non era mai avvenuta con questo ritmo. A sinistra si trova uno scoglio ardito con le caratteristiche morfologiche di quello che segue l’Isolotto di Riaci e del Vadaro sotto Capo Vaticano.  Tra i due siti ( partt. 6-7-8, – 1087-4,) sotto la sabbia a meno di un metro scorre l’acqua dolce che interfaccia con il mare nel quale si perde, per la particolare conformazione della falesia retrostante. In un punto, part. 1087, essa sgorga evidente con temperatura costante che sembra fresca d’estate e calda d’inverno e si mescola subito in una vaschetta che comunica con  quella salata dalla quale  isolata è potabile e da riportare al piano per uso civile. I pozzi al piano stesso  attingono a profondità maggiore.  Davanti a tale protuberanza della roccia che chiude l’insenatura che si vede dalla villetta di Porta Vaticana, ci sono i segni di una assidua estrazione al punto che ha ribassato lo scoglio attaccato alla falesia protesa sulla sinistra, risparmiando per esigenze di  lavoro il lato maestrale verso il mare, poi chiamato Altaretto, dinanzi al quale si formò un piano platea navata da far dare allo scoglio così modificato tale nome, riportato dal Sergio.  Figure 4-5-6. Qui ci sono i segni evidenti che provano che la forma delle estrazioni non si limita alle macine, ma si estende alle pietre dette – d’aria- che con forma come da figura 8 e corrispondnet vano di estrazione, figura 8a, venivano trascinate sull’aia di terra battuta per trebbiare i cereali. La -petra d’aria- ricavata dalla calcarenite ricca di fossili era la più ricercata: rimaneva artigliata sulle spighe , non diventava liscia come quella di granito e non si rompeva come quella di tufo.
4) Segue verso sud un tratto di duecento metri senza segni di intervento e con rupe debole alla base che ora viene erosa con ulteriore ingrottamento che porteranno a crolli della soprastante parte scalzata, figura 7, come in maniera vistosa è avvenuto al – Passo del Cavaliere- circa venti anni addietro figura 7a .
5) Dopo un altro promontorio in linea retta si allunga fino alla delimitazione dell’area proposta al vincolo ed è, se possibile il più interessante. Esso va dal – mare Ninno- agli scogli di Cacaricà sotto l’Elefante preceduto da un Rinoceronte, per gioco della natura. Qui tra il piede della roccia e l’acqua si frappone una barriera di granito alta ed in mezzo per circa venti metri si trova una piastra di calcarenite molto sfruttata per le macine quando era ancora poco sollevata rispetto al mare. Ora è coperta dalla sabbia per poco ma dopo le mareggiate si mostra con le cavità e con qualche superstite macina abbandonata perché  inutile o rovinatasi durante l’avvio all’imbarco o abbozzata ed anche abbandonata rivelandosi scadente.
Ma la meraviglia si trova qui al lato sud di questo promontorio  al limite della scogliera e della zona delimitata col mare a pochi metri: l’ottima qualità della piastra tenuta libera dalla sabbia per la vicinanza all’acqua che la lambisce quando si agita  mostra decine di cavità perfette e successive, il sito è stato sfruttato al massimo per mole di grosse dimensioni. Pali cavità si mostrano – splendenti- dall’alto della rupe detta anche – Batteria- per aver ospitato un cannone del quale rimane la piazzola rotonda di postazione di fronte al mare.  Da un po’ di tempo sembra essere in atto un bradisismo negativo, se possibile accelerato, perché mentre 40 anni fa apparivano le cavità a sud ovest di tale estesa cava, oggi si sta scoprendo fino al Mare Ninno portando allo scoperto centinaia di interventi sovrapposti e per varie finalità pratiche. Da notare che in questo sito dagli scalpelli non è stato toccata la barriera di granito che si pone prima della cava calcarenite e la base della rupe-falesia. Le più belle cavità degne di cornice  si trovano a sud.   L’acqua che tali cavità trattengono o ricevono da un lieve – tremolar della marina- si scalda in estate è da sempre culla vaschetta tiepida ogni anno per tutti i bambini in vacanza a Riaci come l’Elefante che li sovrasta,  Figure 8-9-10-11-12-13-14- 15-16-17. Ciò che oggi per l’Archeologia ufficiale vien chiamata –scoperta– è un ricordo di prima infanzia per migliaia di persone che vi ritornano apposta commosse anche dopo decenni, non si possono tenere lontane: ogni vaschetta incarna un – fiume – di Ungaretti. Questi li rievoca in rapporto ai genitori ed ai periodi della sua vita non raminga ma da ambasciatore della nostra cultura, chi ritorna dopo decenni in esse immerge i figli ed in essi pesciolini nell’acqua tiepida si riconosce bambino: qualcuno anche piange, di gioia.
Le foto dal n. 33 al numero 46, volutamente con colore riposante, presentano l’estensione incrociata e variegata dell’attività di estrazione. La n. 8a fa vevedere in forma speculare il prodotto e la cavea lasciata, la fig.37 mostra un lavoro abbandonato per rottura di un lembo,40 l’estrazione di piastra tipo abaco per capitelli ed appoggio nelle colonne ioniche e corinzie, le doriche poggiavano direttamente sullo stilobate, la fig.46 evidenzia una ciambella con minor diametro  e maggiore spessore più usata nei mulini e nelle facciate come nella figura 31. La visione completa dipende da quanta sabbia rimane la mareggiata, ma al tempo dell’attività tale problema non c’era. La fig. 46 mostra la base scanalata delle presse nel frantoio idraulico a San Giovanni di Zambrone: almeno 4 tonnellate che solo da sito prossimo potevano essere lì trasportate.
Nella nota si rileva che al margine est della zona indicata alcune incisioni si possono leggere come bitte. Certamente bitte per ormeggio erano quelle che affiorano dall’attuale livello di terreno nell’angiporto di Tropea di fronte al Preventorio nella pineta, di particolare fattura che può svelare agli esperti la loro epoca. Figure 27-28.
Ipotesi: possono essere piantate e cementate per grosse navi sulla punta ritoccata degli scogli emergenti chiamati –Li Pali-, oppure residuo di un porto avviato e non completato del quale non vi è traccia nella letteratura a noi nota. Da un sondaggio empirico la loro base sopra il livello del mare corrisponde a quella dell’attuale molo che le fronteggia a circa cento metri a maestrale. Bisogna esplorare se sono unite da cortina e sulla loro direzione ve ne siano altre decapitate o asportate. Dietro richiesta della Università nel 1337 Roberto d’Angiò accordò la costruzione di un porto a Tropea a servizio navium  ad illum declinantium… statuendi datium et exigendi.
Una autotassazione sotto forma di addizionale:- Fate quello che volete ma non mi chiedete denaro. (Caggese : Roberto d’Angiò).

SIAMO IN MAGNA GRECIA

Impraticabile l’ipotesi di vietare la balneazione per la presenza di tale attività che forse è durata millenni. Luogo assai frequentato anche se in parte raggiungibile solo dal mare se è appena mosso.  Siamo nel punto culminante per frequenza e bellezza della Costa degli Dei, suppongo pagani. Il tesoro archeologico provvedono  essi a custodirlo. A Delfi il Saettante Apollo fece scappare i Medi Persiani facendo rotolare massi dalle alte rocce Fedriadi: qui lo stesso ha presso sulla estremità di Pirreo le sembianze di suo padre Giove Crisoelefantino, figure 11,11a, e vigilando sugli Scogli di Cacaricà non lascia avvicinare vandali. Su quel mare da secoli ne ha visto tante di cose. Fino ad Ottocento inoltrato tra gli scogli ricchi di pesce arrivava la foca monaca che i contadini del pianoro chiamavano –a vaccarea- il suo richiamo era analogo a quelle delle giovenche a cinquanta metri più in alto ed a volte confondevano le voci.  Scomparsa la grande foca cinquanta anni fa Apollo nascosto nell’Elefante di foche ne vide arrivare altre da terra e di ogni età sempre più numerose al punto che le vaschette termali delle lasciate dalle pietre imbarcate, non riuscivano a contenerle. Ma al loro momento non erano recalcitranti  ed al sole – nude al bagno,  non emularono  Diana, sorella di Apollo,  con chi andava a caccia di polpi: non servì un Ovidio a cantare Metamorfosi dal suo monumento a Costanza -Tomi sul mar Nero.  Ma quasi tutte quelle Nereidi dopo alcuni anni tornano e per prima cosa portano i loro pargoletti in quelle culle termali con le fotocamere sempre in azione: forse per questo vale la pena vivere: esse sono nel ricordo come i Fiumi di Ungaretti.

ANAMNESI STORICA DI TALE ATTIVITÁ ESTRATTORIA NELLA MARINA DI TROPEA

Plaudendo alla iniziativa dell’autorità Archeologica per le Province di Reggio Calabria e Vibo Valentia quando interviene alla tutela dei beni affidati alla sua cura, si fa presente che in questa zona tante peculiarità andavano protette da tempo ed altre aspettano tutela e con… sospetto viene indicato chi lo chiede.  Quanto segue, da tempo organizzato in memoria con le foto per tutto il comprensorio di Tropea e relativo in senso lato a tematiche simili, solo  per divulgazione avendo percepito che da parte di tanti c’ è un grande desiderio di conoscenza in questo campo, e da essi ho appresso anche cose nuove. Esprimo anche il desiderio nel caso di Tropea incontrare l’estensore della nota opportuna  riportata…
Sul  caso specifico da tempo ho indagato con migliaia di foto nella ricerca  che sta cercando con fatica di salvare almeno con tale documento tanti manufatti del comprensorio di Tropea, non per folklore, ma testimonianza  dell’organizzazione e tecnica del lavoro mirato ad un risultato pratico e specifico come le macine per le quali bisogna chiarire subito alcuni luoghi comuni ed a mio giudizio tecnicamente errati, senza entrare qui in altre valutazioni. Da valutare anche che a Tropea non si può sottrarre alla balneazione una parte così estesa di litorale e senz’altro la più frequentata con tal nome che è un marchio e richiamo fino alla foce del torrente Riaci sotto l’Elefante: non mi è chiaro se tale divieto è totale nei limiti indicati dall’ allegato aereo o se negli intervalli che qui si pongono è lecito bagnarsi e sostare sulla bianchissima sabbia con alle spalle la falesia.  Non risulta che alcuno mai abbia recato danno alle –cavità di estrazione- perché le migliaia continue riprese con foto camere non le consumano, ne permettono la fruizione fuori delle vacanze ed anche nei più attenti una riflessione storica sulla loro natura: tecnica di estrazione, artigiani specializzati, destinazione ed uso vero di tali macine calcarenite e differenza di fazione e sito ed impiego con quelle di granito e la fine vergognosa che hanno fatto nel comprensorio, non solo di Tropea, smontando i mulini- perché non servivano- come a Tropea sono stati abbattuti mura, fortezze e castello, perché i pirati dal mare non apparivano più. La Spettabile Sovrintendenza tutta sa cosa significa, una Autorità analoga nel 1800 non avrebbe consentito –la strage ed il grande scempio– senza il quale questa città non avrebbe avuto eguali nel Mediterraneo.

LE  MACINE

Pronunciando la parola –macina- il pensiero corre ai trappeti ed ai mulini, il che è solo parzialmente esatto specialmente nel nostro caso a Tropea, anche se qui in passato si ebbero intorno ai cinquanta mulini e quasi 100 trappeti certificati all’inizio del 1600.(Apprezzo Fontana per la vendita di Tropea).
Non è vero: le pietre in esame soccorrevano i mulini o i frantoi oleari idraulici (uno solo nel comprensorio di Tropea a San Giovanni Battista che però Sergio chiama Evangelista…) solo per la costruzione della tromba o torre acquaria al disotto della vasca di accumulo protetta dalla griglia, dal punto di subito restringimento fino all’introduzione dell’acqua, che così acquistava forza, nel blocco granitico di base che sosteneva tutto.  Avendo ispezionato tutti i mulini, anche i ruderi della nostra zona, in nessuno c’è traccia di tale tipo di macina adoperata per triturare i cereali o schiacciare le olive. Dopo pochi giri si sgretolerebbero, e se mai è avvenuto la pietra usata non era certo calcarenite come quella in questione. Nel primo mulino mosso dal Burmeria deviato a Tropea il distacco dell’intonaco mostra il loro uso specifico. Figura 29. Neanche quella ricchissima alla foce del Riaci, se ha permesso interventi mirabili, figura 26, avrebbe resistito come ruota girante.
La estrazione di simili pietre precede la nascita dei mulini stessi ed era in uso nella Grecia antica prima della esplosione di Hera Santorino  per la costruzione delle colonne dei templi dove non si ricorse al legno che ci ha lascito la buca di posa  nel terreno. Negli scavi di Hera Santorino appaiono prima della esplosione colonne di facciata identiche a quelle che a Tropea si sono rivelate il Largo Vaccari scrostandone una. Figura  31.
Nelle costruzioni fortezza dei Veneziani in Morea dopo il Mille a difesa dei porti tra il materiale riciclato appaiono chiare tali macine rotonde come ciambella col buco, provenienti da resti di templi in rovina e spogliati, non c’era certo il tempo di andare a smontare mulini in funzione e nelle vallate. Pericle per le lunghe mura, sotto l’urgenza della sua guerra,  non risparmiò i mausolei anche di uomini illustri che contribuivano a difendere la patria mostrando nella cinta delle Lunghe Mura il loro nome.
Tali macine dovevano prendere la via di Napoli e scrostando le colonne, non scanalate ma intonacate, di tanti edifici notevoli non sarebbe difficile accertarlo. Potevano essere imbarcate direttamente sul posto ed i luoghi lo permettevano o con naviglio ponte essere trasferiti si tartane più affidabili nella rada di Tropea.
Pare che soltanto l’abate Francesco Sergio ci da notizie di tale attività, sempre annotando che ai suoi tempi, tra 1600 e 1700, il mare cedendo alla sabbia aveva già limitato la coltivazione delle cave. Ora si fa presente che dietro l’inversione di tendenza tra terra e mare con questo criterio inibitorio, essendo sicura la indicazione dell’abate Sergio,  fra poco l’Autorità Archeologica dovrebbe vietare la balneazione su un litorale ben più esteso tra Isola e Corallone e non credo che tale provvedimento sia tout court praticabile.
La cava presso il mare più nota a Tropea è quella detta – Petri i mulinu –, sotto la rupe del Campo di Sotto che a sud guarda alla Conicella.  Essa è nota a tutti da tempo, bagnanti e sub che hanno riferito delle macine numerose in fondo al mare. Cadute durante l’imbarco scartate  imperfette. Di essa in particolare non ci parla l’abate Sergio nel 1720  e parla per altre contigue esistenti tra l’isola ed il promontorio dei Cappuccini (Ora Frati Minori).
I cavatori erano gli abitanti del villaggio di Alafito, poi risucchiato dalle frane nella Grazia verso le seplote tracce di San Sergio.  La loro attività di scalpellini si svolgeva sui monti di granito modellando le pietre angolari o cantoni necessari ai palazzi, mentre – de vivis & electis Lapidibus efficiunt molas molendinorum , et ac Forcularium olei tam eas desuper quam subter. (Sergio- Chronologica Collectanea 61 d. ) Il passo precisa che le macine vere e proprie  per i mulini e per i frantoi erano di granito scelto, senza difetti o venature che potevano causare la rottura  durante il lavoro. Nel caso del –Forcularium– frantoio per le olive,- desuper quam subter – debbono intendersi le macine giranti verticali e la piastra lapidea, anche di un blocco con fondo a padella con dentro le olive, su cui si muovevano. Blocco lapideo unico, fornito delle opportune scalanature per appoggio delle presse, era quello che supportava l’enorme sforzo di estrazione dell’olio dopo la macinatura con l’aiuto dell’acqua calda. Lo stesso vale per le mole sovrapposte dei mulini soprana girante e sottana fissa con in mezzo il cereale
I cantoni potevano essere anche di tufo, ma la differenza si nota nei palazzi di Tropea, anche negli spigoli nord  dell’ Episcopio e della Cattedrale da poco rifatti e già sbriciolati. Poi aggiunge che gli stessi a suo ricordo arrivavano alla riva del mare col bel tempo e col mare tranquillo con gli strumenti di ferro traevano mole di alta qualità che esportavano lontano da Tropea ricavando oro ed argento. Ma già a sua memoria tali cave furono perse ob invadentiam arenarum. Si capisce che il mare nelle zone interessate cominciò a ritirarsi alla fine del XVII secolo, mentre ora  avanzando scoprirà altri siti sfruttati che prima e dopo di lui sono stati coperti – per troppa rena-. Appunto annota luoghi di estrazione ricoperti in seguito dall’arena, foglio 12 v., ed aveva precisato sulla spiaggia dominata da propugnacolo di Porta Vaticana, dove molae erant optimae perfectionis, . e può darsi che agli scogli di Petri i Mulinu si ricorse perché sopraelevati rimasero accessibili ed ad essi si ricorse anche per facilità di imbarco dalla loro altezza e toccati da una profondità di mare che permetteva l’attracco e l’attacco dei barconi. Dal mare si leggono due invasi perfetti per stazionare i barconi col mare calmo e caricarli. Ci sono buche sulla piastra profonde  un metro e strette che suggeriscono piccole colonne.  La piattaforma rocciosa dello scoglio principale, implosa da tempo,   -petri i mulinu-  è stata molto sfruttata perché si alza dal mare ed accostando ad esso le mole con facilità potevano essere caricate, anche con l’intervento di un argano per una posa controllata sul natante per evitare il suo fracasso. Non è novità  tale attività antiche sulle nostre coste evidenti da sempre anche se non –apprezzate-. Alcuni decenni fa l’apparizione presso Santa Maria di Ricadi di tali cavità  fu annunciata con l’enfasi di un – Sidereus Nuncius -. Il Sergio indica tali estrazioni anche più avanti presso lo scoglio Grande di Riaci a sinistra della foce dell’omonimo ruscelletto. Mescolando la descrizione dei pesci  precisa – In acumine huius Promontorij extant nonnulli  Scopuli vulgo dicti li Cacaricà   ditissimi omni piscium… Non procul hnc adsunt due Scopuli vulgo l’Isolotto di Riace etiam ditissimi omni piscium & concarum genere; in quorum continenti adest effossio molarum molendinorum quae ubique fit, fit ab habitatoribus casalis Alafito cum omnes sint huius professionis nimirum effossores vulgo Piconeri ,& hae molae vendunt non vili, sed bono pretio. – Figure 18-19-20.
Realmente ci sono intorno allo scoglio le cavità ma su calcarenite di qualità inferiore a quella precedente a Cacaricà. Il livello rispetto al mare delle stesse pone il problema dell’andamento dei  bradisismi a minima distanza. Per chi guarda al mare a destra  dello scoglio affiorano alcune cavità intatte nella loro altezza e la loro estrazione presuppone di necessità un mare più basso rispetto a loro, anche se il cronista  precisa che l’attività dei Picconieri  tutti di Alafito si svolgeva  – tranquillitate maris -.
Vedremo… dall’alto della rupe  da sempre si ammira la meraviglia di  scogli e mare: il tratto delimitato è il fotogramma  che lo spot della Regione Calabria poneva alla fine come immagine subliminale. Rimane a lungo nel desiderio di chi l’ha visto una sola volta.
Grande è l’importanza ai fini della ricostruzione della storia economica del lavoro e della vita in quel passato di tale presenza lungo la costa a tutti da tempo nota senza che abbia subito danno alcuno. Qui comincia un percorso dalla materia prima, roccia naturale,  che si incrocia dopo molta fatica con il grano che la terra ci da dopo tanta fatica e ciascuno per la sua parte ci danno il pane che ha bisogno del forno e della legna. Oggi sembre tutto semplice, le interferenze di tutti tali elementi i libri di storia li sfiorano solo quando parlano di carestie e rivolte per il pane. Gli incàvi sulle piattaforme sono i libri aperti di una biblioteca che non ha bisogno di inventari e rimandano agli altri libri che altrove la natura presenta ma non così bene conservati, come i mulini saccheggiati e abbattuti, fino ai forni due dei quali in Tropea, di eccezionale validità archeologica ai fini esposti non stanno avendo miglior fortuna…
Dietro l’attività di estrazione a mare e di modellamento delle pietre di granito selezionato per macine vere e proprie per cereali ed olive, comprese le piattaforme per le presse, c’era l’intero villaggio di Alafito sulla costa sotto Zaccanopoli di fronte a Drapia ed alla fontana Vardaro, avendo poco a monte i resti dell’antico San Sergio ora di fatto scomparsi come il loro villaggio da quel scoscendimento continuo che minaccia Zaccanopoli, già designato da trasferire nel 1913. Tranne poche olive e qualche vigna il villaggio, sotto l’egida pesante di Tropea, non aveva altre risorse e si specializzò  in tale attività di Piconeri e  compivano una transumanza al contrario: tra monti di granito d’inverno e marine di calcarenite  d’estate.
Il lavoro era tutto manuale con scalpelli, mazze, mazzole, e leve di ferro per lo scostamento del blocco preparato e quasi staccato con dei cunei di duro legno che bagnandosi tra base e pezzo d’intervento si gonfiava e lo staccava senza rovinarlo: quando ciò accadeva veniva abbandonato. Tra di loro che operavano in gruppi c’era chi osservando la pietra capiva l’opportunità di operare e cosa meglio ricavare. Era difficile la fazione di una base di pressa a triplice appoggio a forma di parallelopipedo, doveva limitare la difficoltà di trasporto per l’alto peso specifico del granito stesso: si cercava un compromesso tra i vari parametri di peso, spessore, lunghezza ed il punto di frattura. Il trasporto e posa in opera era compito difficile, come si faceva per i marmi di Carrara per portarli a valle scivolandoli, nel luogo di lavorazione non era possibile il loro sollevamento e carico su mezzi da trasporto  e doveva cercarsi il granito quanto più vicino ed agevole possibile.
Soprattutto gli scalpelli dovevano essere ben temprati e con varie funzione specie col granito, è da supporre tra tale comunità un – forgiaro- all’altezza del compito, professione oggi in zona scomparsa. Forse i Piconeri di Alafito ricorrevano all’opera dei Forgiari di Tropea che con decine di forge nel borgo transito per scendere alla marina attraversola Calatadi Patei, oggi via Umberto, per secoli col mantice di pelle, fucina, incudine e martello, fecero da maniscalchi a tutte le esigenze artigianali ed agricole del comprensorio di Tropea, fabbricando e rifacendo la ferratura agli  equini e mucche, scalpelli, zappe, vomeri, ed  ancora fino a cinquanta anni fa in quella via nel giorno di mercato era pieno di tali animali.

TURIANO

Dalle ciambelle col buco estratte sotto la rupe della contrada Campo venne il toponimo – Petri  i Mulinu- e non sappiamo da quanti secoli o millenni cominciò in quel litorale che certamente è bellissimo quanto nessun altro in Calabria . A sud intorno alla foce della fiumara Ruffa o Vaticana ci sono altri due toponimi, TONO a sinistra, TURIANO a destra, dei quali qui in seguito propongo l’origine legato all’archeologia ed alla storia il primo, al mito di Demetra e Proserpina il secondo.
Ne propongo qui la possibile spiegazione sicura  per quanto mi riguarda, sperando di sentire più valide e motivate spiegazione, se possibile. Chiedo alla Spett.le Sovrintendenza ai Beni archeologici di Reggio Calabria di valutare quanto appresso anche ai fini di un sopralluogo.
Se noi sulla cartina geografica togliamo lungo la costa tutte le pianure estese e sottili avremmo il profilo della Calabria come emersa dal Tirreno e dallo Ionio quale appendice appenninica: le pianure che si distendono ampie o esili sono frutto dei riporti dell’acqua e le loro larghezza nei secoli determinata da fattori antropici quando la variazione avviene in poco tempo.
Possiamo dire che i fari fattori possono concorrere nella stessa direzione o contrastarsi  e la  linea di costa va come un pendolo ed è difficile stabilire l’esatta posizione nei millenni. Ma quando il mare arretra nasconde le opere dell’uomo, quando avanza le riscopre se il livello  tra i due elementi non si è di tanto alterato.  Tale assunto a nostro modestissimo giudizio si legge a destra della foce della Fiumara Vaticana nel toponimo – Turiano – e la stessa ha contribuito a crearlo verso il400 a.C.
Con questo toponimo si indica  ciò che di terra alluvionale rimane sulla destra della foce della fiumara.  Superando Baia del Sole e Cala di Volpe ci si trova direttamente di fronte ad un’erta contrafforte del pianoro sovrastante che ancora difende il suo greco nome di  fronte all’invadenza di – Torre Marino– intruso di recente conio. Esattamente da questa località comincia in senso lato la rupe di Tropea.
Se è vera l’ipotesi qui esposta  circa duemila e quattrocento anni fa la battigia si    approssimava a quella attuale dovendo essere più arretrata e la terra più alta ed opponendo alle onde una barriera granitica che si slargava verso la base del pianoro e lo difendeva dal mare. Da un esame generale della linea di costa fino a Tropea può essere stata la condizione standard per migliaia di anni.  Nel suo avanzare e retrocedere in  tale tempo  il torrente ha trascinato anche dentro il mare enorme quantità di pietre da sotto  Spilinga in poi levigandole. Esse sono sotto la sabbia e l’acqua mentre affiorano  nell’ultimo tratto della foce.
La  destra della foce che appunto si chiama –Turiano– toponimo antico che contrassegna un sito ben distinto da Torre Marino che si trova subito dopo dallo stesso lato. Sulla sua battigia si trova una lunga e compatta piastra granitica  che segue verso Tropea la grande abbondanza di pietre levigate di ogni forma e dimensione trascinate dalla fiumara. Da qualche decennio disotterrata dal mare che avanza e la lambisce, essa fa da battigia e presenta i resti, a mio giudizio, di una batteria di piccole costruzioni fortificate di fronte al mare per il  controllo militare della navigazione nel basso Tirreno a protezione dello Stretto, come pure dalla minacce che da esso transitavano a seconda di chi controllava il luogo. Tutto nell’ambito dello scontro e pirateria tra tiranni di Siracusa, Etruschi, Cartaginesi e  Bruzi da quando nel quarto secolo si stanziarono in – Italia – da loro  poi Brutium, mentre Italia, l’altro nome che designavala Calabria Ultra che verrà senza armi, se non la spinta propulsiva del greco idioma,  portato  fino alle Alpi dove oggi non è gradito ai Celtici.
Turris è parole greca e Tusci può valere costruttori di torri e la storiografia li da provenienti dalla Ionia asiatica della Frigia, dopo aver lasciato le coste ioniche di fronte alla terra ora Calabria.
Sono decine a forma circolare che si riconosce nelle basi superstiti tra sabbia ed acqua, con base di appoggio che andrebbe esplorata. Se tanto è vero  tale piastra, all’epoca della sua utilizzazione come sicura base – fondazione delle torri,  presumibili tra V e IV  secolo a. C., doveva avere un’altezza e distanza di sicurezza dal mare che dovevano sorvegliare fino a Stromboli. Dei segni all’inizio della base del pianoro Turiano sembrano evidenziare l’acquedotto della base militare. Stanziamento di una forza navale e terrestre di pronto intervento per  evitare sbarchi contro Hipponion, o uso inverso a seconda di chi controllava tale fortezza, e  la posizione suggerisce una forza navale di interdizione con ancoraggio nella zona. Possiamo trovarci di fronte alle fortificazioni costiere per la cui  distruzione all’inizio del terzo secolo Agatocle  incaricò l’Ammiraglio Stilpone che fallì spinto dai venti contro la costa: incidente che si ripeterà  alla flotta spagnola durante la guerra  mamertina. Il luogo in rapporto ad esse ne ha tutte le premesse. Nel Volume della Rubettino su Tropea viene ipotizzato nelle prime pagine del primo capitolo dalla Prof.essa dell’Unical De Sensi  Destito e credo che sia nel giusto.
Tutto favorì l’impianto: la costruzione su fondazione appoggio esistente in grado di sopportare un peso illimitato, l’abbondanza di pietre da scegliere secondo le esigenze senza bisogno di usare arnesi di ferro per modellarle: una edilizia militare ecologica.  Tucidide ci informa che durantela Guerradel Peloponneso una spedizione ateniese penetrata nella baia di Sfacteria di fronte a Pilo di Nestore (la Navarrinodi Occhialì e della distruzione della flotta turco egiziana il 20 ottobre 1827 dopo il 7 ottobre 1571, ottobre mese infausto per i Turchi) decise di fortificare la località ( teichìzestai to chorìon ) e l’armata di Demostene per passare il tempo, costruì una fortezza che sconvolse Sparta e determinò l’andamento dei primi dieci anni della guerra del Peloponneso. Le operazioni spartane di prendere la fortezza fallirono quando i loro opliti sbarcati sulla piccola isola di Sfacteria davanti alla baia di Pilo, vennero isolati e di fatto l’isola si trasformò in loro prigione e per essi si dimenò a lungo Sparta perché  per la prima volta i suoi opliti venivano catturati vivi anche se vaganti tra gli alberi della minuscola isola alla quale si facevano arrivare viveri.
E – gli Ateniesi- iniziata l’opera, lavoravano, sebbene non avessero arnesi di ferro per lavorare le pietre, ma dovettero portare dei sassi che avevano scelto apposta ; e li aggiustavano insieme come meglio ciascuno combaciava. Tucidide Libro IV- 3-4.
Così furono costruite le torri della fortezza costiera di Turiano: anche se non con la improvvisazione di quelle di Pilo. Questa  spiegazione del toponimo può essere solo ipotesi, ma con fondamento come la piastra che sostiene le torri le cui pietre non hanno segno di tocco di scalpello. Le foto 21-22-23-24-25-, a mio profano giudizio, confermano l’ipotesi che va verificata subito , il mare sta travolgendo tutto ma potrebbe rivelare altro.

IL TOPONIMO  -TONO  DEMETRA  CERE (Madre Terra)
cerca  PERSEFONE KORE (Le Stagioni )

Durante la piena del 20 ottobrela Ruffaera carica di fango depositatosi lungo il suo corso ed oscurava  dentro l’acqua in corsa le pietre rotolanti (The  rolling stones ) trascinate nei millenni (-tormentate – dice Afan de Rivera) da sotto Spilinga in poi e che si fanno sentire come roch and roll nell’acqua torbida che in piena  aumenta la loro velocità e la forza d’urto. Dall’acqua torbida in corsa della Ruffa dopo il ponticello targato fascio 1928, emerge un suono cupo sordo ma  ritmato che  si spande nella valle come se una battaglia con mazze e scudi si svolgesse al suo interno: le pietre arrotondate ormai che si urtano e rincorrono, quelle viste  di Turiano e delle sua fortezze. Ed i Greci Calcidesi, ci spiega con serietà scientifica e profondità di cultura umanistica, AGATINO D’ARRIGO ( Natura e tecnica nel Mezzogiorno –La Nuova Italia-Firenze MCMLVI ) chiamarono per lo stesso rumore emesso dalle sue acque, – Pantagia – Tonante intorno il torrente che con estuario porto navigabile trovarono nell’insenatura nord al promontorio di Campolato  che chiude a sud il golfo di Catania dove fondarono Trotilo da cui ora Brucoli. In premessa alla sciagurata spedizione ateniese contro Siracusa ( una guerra nella guerra) Tucidide fa la storia della colonizzazione dorica – calcidese della Sicilia e partendo da Nasso dice:- Katà dè tòn au’tòn krono’n… In quello stesso tempo ( 734 – 728 ) pure Lamide, arrivò in Sicilia portando una colonia tratta da Megara, e colonizzato un luogo di nome Trotilo accanto al fiume Pantacio …  Trotilo subirà diverse varianti e si arriverà a Brucoli poco discosta sull’imbocco del porto canale sulla foce del Pantacio detto Pantagìa, risonante tutt’intorno.
Nel mito di Proserpina -Persefone–Kore figlia di Cerere- Demetra e di Giove, rapita da Plutone che se la condusse nell’ Ade si adombra l’alternarsi sulla terra delle stagioni per l’inclinazione variabile dell’asse terrestre. Ma il mito, riconducendo sempre alla divinità tanti aspetti umani o naturali, nel caso di madre e figlia  riferisce che la prima  andava cercando giorno e notte la figlia scomparsa e non poteva rivolgersi a –Chi l’ha visto?– per trovarla. E come oggi alcuni genitori vanno in giro disperati ed affiggono manifesti, Cerere percorreva la piana di Lentini facendosi precedere dal suono di cembali e tamburi. Questo suono ci ricorda che i banditori un tempo di merci o proclami prima di dare ad alta voce l’annuncio facevano risuonare il tamburo per fissare l’attenzione, come facevano a Tropea u Dondularu e Giulia.  Arrivata presso il Pantagia ( lamenti per dolori in tutto il corpo ) le pietre rotolanti della sua piena ( periodo invernale ) coprivano i suoi strumenti ed invocazioni di aiuto e Cerere disperata per giorni e notti insonni, ordinò al fiume di tacere ( arriva la primavera col periodo di magra ). Ma Giove  padre invocato da Cerere ordinò a Plutone tramite Mercurio, ufficiale giudiziario notificatore, di restituire Proserpina alla madre e si fece un compromesso: sei mesi nell’Ade con Plutone (inverno) e sei mesi sulla terra giovane e spensierata per le campagne (estate) come queste in fiore.  Durante la sua assenza negli Inferi la terra rattristata piangeva bagnandosi delle sue lacrime ( pioggia e torrenti con rimbombo di sassi). La loro favola noi  (Strabone) troviamo  presso Hipponium sul monte Poro e forse non è per caso:  madre e figlia vaganti spensierate nell’altipiano del Poro e ammirando Capo Vaticano di allora dai poggi aerei,  ordinavano alla nostra fiumara Vaticana il silenzio perché subentrava la primavera e l’acqua calata nel letto non faceva più rotolare le pietre, nelle loro passeggiate le ragazze dell’ altipiano raccoglievano fiori per adornarsi il petto. Mentre la terra sul mare a sinistra prendeva il nome di – tono- a destra in seguito avveniva la costruzione dei tholos di Turiano.  Cerere o Demetra disperata per la figlia scomparsa ebbe l’appellativo di Acaia che non si riferisce alla regione del Peloponneso costiera dall’Elide al Fiume Crati, ma Addololorata dal greco -achos-a-n- con tal significato poi adattato alla madre di Cristo raffigurata nelle chiese in abitonero di luutto e gli occhi in lacrime verso il cielo. Questi pensieri mi passavano per la mente sentendo la musica rock della fiumara vaticana in piena che fermandomi trasmetteva le vibrazioni al corpo. Mi domandai pure se Leopardi quando disse -… reca in man un mazzolin di rose e  viole…  abbia pensato a Proserpina, egli che conosceva come nessuno la greca letteratura. Ogni sensazione in noi ne richiama mille altre e pensando ancora al poeta mi domandavo se l’accostamento ed il richiamo subito dopo alla vecchierella che fila  fosse voler ricordare alla donzelletta che pur essa diventerà tale con implicito invito a cogliere la vita che rimanda al  carpe diem e tanti altri pensieri che ad ognuno spuntano senza evocarli ma tutti legati alla sua vita in ogni senso. Con la torbida e potente fiumara color carbone davanti,  mi ricordai di quando cinquanta e più anni prima mangiavo le trote che essa trascinava fino  ai campi di cipolla sul promontorio di Pirreo a picco sul mare,  il Pirrello seu Riaci del Sergio. Poi tornando alla letteratura ed alla vita sulla terra mi domandavo se certi versi monumento degli ermetici italiani avessero precedenti nei  poeti greci….mentre come musica piacevole un roch suonava  la nostra Pantagìa fiumara vaticana a me che il roch non capirò mai. La validità portuale per quasi tre millenni di Brucoli è la sua naturale protezione da tutti i venti e soprattutto da quelli sciroccali fermati dal Campolato. L’imboccatura è rivolta ad oriente e non teme ponente e maestrale alle sue spalle: gli accorgimenti tecnici di ritocco delle pareti  rocciose limitavano l’interrimento: fu l’imbarco del grano della piana di Lentini, poi di Catania, per oltre duemila anni ed oggi l’unico porto rifugio peschereccio a sud di Catania prima di Augusta. Tutto questo ancora per ribadire l’analogia con il vallone terminale della Brace orientato a ponente ma difeso con le sue alte pareti da tutti i venti: ipotesi economica di fattibilità se lo studio delle correnti marine lo permette anche con accorgimenti tecnici sul fondo.E l’unico sito nel comune di Ricadi. La analogia del toponimo – Tono – con Pantagia, tonante, sonante, rimbombante, è evidente nel fatto che qui la voce greca si è latinizzata, mentre il porto canale che esso forma al termine sud dell’ampio porto di Catania somiglia al fiordo ora insabbiato della Vrace dal ponte ferrovia al mare. I tuoni del Pantagia sono ricordati da Tucidide, Ovidio e Virgilio come ci annota Tommaso Fazello della – Descrizione della Sicilia-  L’uscita dei torrenti Vrace e Riaci dal fronte roccioso tagliato a V in tempi lunghissimi, si trova oggi a poca altezza dal livello del mare e vicina forse meno di dieci metri alla punta del taglio dove la base è intera. Specialmente a Riaci per ricerca geologica si potrebbe esplorare il taglio fino alla fine in fondo  e si conoscerebbe così  il livello più basso del mare in epoca geologicamente recente in relazione ai bradisismi. Tale movimento svolgendosi in senso alternato ed essendo il livello del mare condizionato anche da altri fattori, ha fatto si i valloni alla foce a volte si insabbiavano coprendo il precedente taglio, a volte col mare più basso si pulivano e l’acqua riprendeva l’opera di incisione. Quando il Mediterraneo divenne un lago chiuso e si prosciugò il livello del Nilo si abbassò di tanto sotto il corso attuale ed i carotaggi lo confermano con il salgemma nelle sue profondità.            

 

 Antonio  De  Luca  T. F.   0963-62348  info@bbromero.it

Condividi l'articolo