A Pievequinta, una stele ricorda la tremenda fucilazione per decimazione ad opera dei nazifascisti
“La vita è il prezzo della libertà” disse Sandro Pertini pensando ai martiri della Resistenza. Tra questi è giusto ricordare il tropeano Biagio Molina. Nato a Tropea il 21 aprile 1907, si stabilisce a Bologna per motivi di lavoro insieme alla sua famiglia, la moglie Rossana Benda, i figli Rita e Giorgio
Siamo nella primavera del 1944, in pieno periodo bellico. Per quelli che abitavano a Bologna la situazione incominciava ad essere insostenibile, i massicci e continui bombardamenti spingevano sempre più la popolazione a sfollare. Anche la famiglia Molina, terrorizzata, decise di allontanarsi dalla città durante il furioso bombardamento del 15 maggio. La direzione era quella per Imola. Il rifugio fu un casolare sulle colline di Riolo Bagni, che al momento era un importante centro di raccolta e smistamento dell’attività partigiana locale.
Biagio si diede subito da fare collaborando ed aiutando con animo, forza e competenza l’organizzazione in mano al noto C.te Franco Franchini detto “Romagna” (Medaglia d’Argento al Valore Militare alla memoria), Capo della VII GAP di Imola, sino a che un traditore denunciò alla milizia nazifascista le attività di contrasto che vi venivano svolte e i nomi degli artefici. La notte del 14 luglio i tedeschi piombarono al casolare per perquisirlo e non trovando nessuno dei responsabili chiesero chi fossero i familiari di Biagio Molina. Rossana si fece avanti dicendo che era moglie e unica parente. L’arrestarono ma i figli Rita di sei anni e Giorgio di dodici scoppiando in un pianto dirotto si spinsero nelle braccia della madre. La stessa notte, insieme, furono caricati su un camion e portati al carcere di Forlì.
Dopo qualche giorno, il 19 luglio, fu preso Biagio, condotto anche lui nello stesso carcere, dove furono tutti interrogati e picchiati. Il figlio fu percosso con un nerbo di cuoio, e per farlo parlare gli infilarono spilli sotto le unghie. Giorgio, all’età di 12 anni, veniva considerato a pieno titolo prigioniero politico per aver collaborato nelle azioni partigiane. La sera del 25 luglio fu accompagnato in infermeria perché aveva bisogno di essere medicato: era una maschera per le sferzate ricevute e anche per le cimici che pullulavano dentro il pagliericcio. Fu la solidarietà di un infermiere, un certo Fiumara di Forlì, che lo fece salvare escludendolo dalla lista dei dieci prigionieri politici, tra i quali il padre Biagio, destinati alla fucilazione per rappresaglia in seguito all’uccisone in Pievequinta di Forlì del caporale maggiore tedesco avvenuta nel pomeriggio.
La mattina del 26 luglio i familiari di Biagio Molina furono rilasciati. Suora Silvetti li accompagnò fino alla periferia della città da dove intrapresero un viaggio di due giorni e due notti per ricongiungersi con la madre di Rossana che li portò presso dei parenti a Zola Pedrosa (Bo). Tutto ciò avveniva quando il destino di Biagio Molina si era già compiuto all’imbrunire del 26 luglio.
Giorgio da solo s’incamminò per Bologna, dichiarata ‘Città aperta’, e visse della carità del prossimo e con la raccolta dei bossoli di cui il rame era una fonte di guadagno. Riuscì a vedere in assoluta anteprima l’arrivo dei liberatori della città la mattina all’alba del 21 aprile 1945, a Porta Mazzini, già in piedi con il suo carriolo.
A Pievequinta, frazione di Forlì, una stele ricorda la tremenda fucilazione per decimazione ad opera dei nazifascisti. L’epigrafe recita “Qui il 26 luglio 1944 al disopra delle bandiere delle razze, delle fedi, affratellati nella morte caddero perché la libertà patrimonio degli uomini e dei popoli illuminasse il volto rinnovato della Patria.”.