Fede e dintorni

Film su uno straordinario perdono

Rubrica quotidiana a cura di P. Salvatore Brugnano

Storie belle… per vivere meglio

Film su uno straordinario perdono.

Nel dicembre 2012 il mensile «Donne, chiesa, mondo» pubblicò un articolo sul film «The Heart of a Murderer» (Il cuore di un assassino) che raccontava la storia dell’assassinio di suor Rani Maria Vattalil, beatificata sabato 4 novembre 2017.
In occasione della beatificazione l’Osservatore Romano ha voluto riproporre la storia del film della regista italo-australiana Catherine McGilvray, che all’epoca impressionò l’opinione pubblica. Il messaggio era dirompente: Il perdono può veramente trasformare l’odio in amore.
Ed è quanto avvenuto in questa straordinaria vicenda.

♦ «You are my son, and I’m glad you came» (Tu sei mio figlio, e io sono contenta che tu sia venuto): aprire le porte della propria casa, baciare, fare sedere a tavola con la propria famiglia, mangiare con lui. Com’è umanamente possibile accogliere nella vita e nel cuore l’assassino della propria figlia? Abbracciare le mani macchiate del suo sangue?
È il mistero del perdono – radicale, potente e silenzioso – il centro del bellissimo film The Heart of a Murderer girato in India dalla regista italo-australiana Catherine McGilvray.

♦ In un’ora, la pellicola racconta la storia di Samundar Singh, il giovane fanatico indù che nel 1995, a ventidue anni, uccise suor Rani Maria, missionaria francescana originaria del Kerala.
Accoltellatala per 54 volte, la abbandonò sul ciglio della strada. Una morte lenta, lentissima nella solitudine più completa: «Tu, Gesù, almeno avevi tua madre e i tuoi amici più cari ai piedi della Croce — sono i primi pensieri di suor Selmy Paul, la sorella di Rani, appena avuta notizia dell’omicidio — Mia sorella invece è morta senza nessuno attorno».
Arrestato e condannato all’ergastolo, Samundar viene perdonato dalla famiglia di Rani, che non solo
chiede (e ottiene) per lui la grazia, ma che arriva ad accoglierlo come un figlio e come un fratello.

♦ Tra i narratori principali del film, lo stesso Samundar, che ricorda i fatti mentre, dal suo villaggio del
nord dell’India, sta andando in treno a trovare la famiglia
di Rani Maria, che vive nel Kerala. È il viaggio del suo risveglio spirituale, del passaggio da giovane imbevuto di odio e
ignoranza a uomo libero nell’amore.
Quasi parlando a se stesso, Samundar è timido e per certi versi incredulo, mentre espone il perdono
incondizionato e inatteso, manifestato da chi è stato irreparabilmente colpito dal suo gesto assassino.
È affascinante notare il linguaggio che Samundar utilizza nel presentare la sua dolorosa storia: come
la regista spiega a «donne chiesa mondo», è stato lui stesso a scegliere di raccontare, più che attraverso
le parole, mimando nuovamente quei terribili gesti, interpretando se stesso. «È il modo indiano
di raccontare — continua McGilvray — e ho accettato ben volentieri questa “contaminazione” culturale,
nella speranza che rappresentasse un passo ulteriore verso il tentativo di cogliere lo spirito autentico
di questa incredibile vicenda».

♦ Ma il film parla anche attraverso la voce della sorella e della madre di Rani, due donne accomunate dall’amore e dal dolore, dal pianto e dalla pace. Sono presenze che restano profondamente impresse per la serenità emanata dai loro
volti e dai loro gesti. Nessuna esaltazione o esagerazione in loro: solo la forza feconda del perdono capace di accogliere nel profondo.
La madre, in particolare, arriva a comprendere il senso della morte di sua figlia, dopo che, inizialmente, non ne aveva condiviso nemmeno la scelta religiosa.

La quarta voce narrante è infine quella di Swami Sadanand, il sacerdote con la vocazione del pacificatore («laddove c’è un conflitto, io vado e mi propongo»), il primo a essere andato a trovare Samundar Singh in carcere, diventandone poi la guida, il padre spirituale.
Senza alcuna retorica né gusto del macabro, senza strumentalizzare i fatti o enfatizzarne i protagonisti, il film di Catherine McGilvray narra – con rispetto,poesia e forza insieme – una storia paradigmatica, capace di elevarsi, nel suo profondo e universale significato, al di là del contingente.

La vicenda, ci racconta McGilvray, le venne incontro nel 2009: da allora il suo desiderio è stato quello
di riuscire a trovare la chiaveper capire e quindi per raccontare, la sorprendente risposta della madre e della sorella di Rani Maria all’orrore che hanno dovuto affrontare: «Sono andata in India – spiega la regista – volendomi affidare del tutto a questa storia».
Il messaggio è dirompente: l perdono può veramente trasformare l’odio in amore.
Nel corso del film, Samundar Singh racconta, pacatamente e senza alcuna esaltazione, il radicale e progressivo cammino della sua conversione, dalla disperazione («nessuno mi può perdonare. Nemmeno Dio») alla rinascita.
Oggi quest’uomo è una persona consapevole, vero testimone della grandezza potente e vitale dell’immenso dono che ha ricevuto.

(fonte: L’Osservatore romano 4 novembre 2017).

Aprire le porte della propria casa, baciare, fare sedere a tavola con la propria famiglia, mangiare con lui. Com’è umanamente possibile accogliere nella vita e nel cuore l’assassino della propria figlia? Abbracciare le mani macchiate del suo sangue? È il mistero del perdono, il centro del bellissimo film The Heart of a Murderer girato in India dalla regista italo-australiana Catherine McGilvray, sul martirio di suor Rani Maria Vattalil, beatificata sabato 4 novenbre 2017.

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