Fede e dintorni

In carcere ritrova la libertà

Rubrica quotidiana a cura di P. Salvatore Brugnano

Storie belle… per vivere meglio

In carcere ritrova la libertà.

– Sabato 27 giugno nel carcere di Reggio Emilia un detenuto di nome Luigi (nome convenzionale), condannato a 30 anni di carcere, ha pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza.
– In questi anni, accompagnato spiritualmente dai cappellani del carcere e nutrito dal carteggio avuto con il vescovo Camisasca ha realizzato il desiderio che in questi ultimi anni era cresciuto.
– Avrebbe voluto fare questo passo al termine della pena, ma il vescovo con i cappellani ha consigliato di farlo ora: nel suo gesto di donazione infatti c’è qualcosa di luminoso che porterà un po’ di luce in un ambiente abbastanza oscuro. – Luigi prega ogni giorno per la salvezza dell’uomo che ha ucciso. Un’esperienza di redenzione notevole, che il vescovo, con il consenso dell’interessato, ha raccontato la vicenda al giornale Avvenire, dal quale poi hanno attinto tutte le altre testate.

♦ Da ragazzo, per prenderlo in giro, i compagni lo chiamavano ‘don Luigi’. A lui non dispiaceva perché voleva davvero diventare sacerdote, e intanto serviva Messa, pregava, interveniva con un rimprovero quando sentiva bestemmiare. Non avrebbe immaginato di finire in carcere, a scontare trent’anni per omicidio.
Ma la vocazione da ragazzo fu oscurata da una crescita turbolenta tra alcol, droghe e atti di violenza. L’omicidio che gli ha cambiato la vita, lo ha commesso durante una rissa e gli è costato una condanna a trent’anni di reclusione.  Infatti il processo si concluse con una condanna a trent’anni, che l’uomo sta scontando nel carcere di via Settembrini.
Ma ecco: dietro le sbarre riabbraccia la sua fede, iniziando a pregare e divenendo lettore alla Messa domenicale.
“È un uomo molto umile – racconta il cappellano, don Daniele Simonazzi – ha ripreso in mano il vangelo seriamente, è un esempio anche per me”. Dalla cella intrattiene anche uno scambio epistolare con monsignor Camisasca, ed è proprio in una di quelle lettere che rivela di pregare anche e soprattutto “per la salvezza dell’uomo che ho ucciso”.
L’intuizione di riprendere il sogno che aveva da ragazzino, ossia di prendere i voti, emerge lentamente. “Inizialmente avrebbe voluto aspettare l’uscita dal carcere – ha raccontato monsignor Camisasca ad Avvenire – È stato don Daniele a suggerirgli un percorso diverso. Con la pandemia noi tutti stiamo conoscendo un tempo di combattimento e sacrificio. L’esperienza di Luigi può davvero essere un segno collettivo di speranza”.

♦  L’intuizione dei voti è emersa lentamente, ma con chiarezza. E monsignor Camisasca, che dal settembre dello scorso anno ha intrattenuto con lui un rapporto sempre più fitto, voleva che Luigi pensasse anzitutto a ciò che significano questi voti nella sua condizione attuale.
♦  Per questo lo ha invitato a mettere per iscritto i suoi pensieri e le sue aspettative. Ed ecco che alla fine il vescovo si è convinto che nel gesto di donazione di Luigi c’è qualcosa di luminoso per lui, per gli altri carcerati, per la Chiesa stessa».

Cosa possono significare i voti di povertà, castità e obbedienza per un detenuto?
Luigi sostiene che ‘il vero ergastolo non si vive dentro una galera, ma anche fuori, quando manca la luce di Cristo’».
La castità dice a Luigi che è anzitutto virtù dello sguardo, capacità di indirizzare gli occhi in modo da «umiliare ciò che è esteriore perché emerga ciò che è più importante della nostra interiorità».
La povertà offre a Luigi la possibilità di conformarsi alla «perfezione di Cristo, che si è reso povero» promuovendo la povertà stessa «da disgrazia a beatitudine». Essa è rinuncia al superfluo, perché «anelare agli eccessi è sintomo di mancanza di gioia». Per Luigi è povertà anche condividere la vita con le persone che sono detenute insieme con lui.
L’obbedienza, infine, Luigi la sente come disponibilità a mettersi in ascolto, sapendo che «Dio parla anche attraverso la bocca degli stolti». Si deve imparare umilmente da tutti.

Conclude monsignor Camisasca: «Con la pandemia noi tutti stiamo conoscendo un tempo di combattimento e sacrificio.
L’esperienza di Luigi può davvero essere un segno collettivo di speranza: non per fuggire dalle difficoltà, ma per affrontarle con forza e consapevolezza. Io non conoscevo il carcere e anche per me, da principio, l’impatto è stato molto duro. Mi sembrava un mondo di disperazione, nel quale la prospettiva della risurrezione era continuamente contraddetta e negata.
La storia di Luigi, come altre che ho conosciuto, dimostra che non è così. Il merito va all’azione dei sacerdoti e al lavoro straordinario della Polizia Penitenziaria e di tutto il personale sanitario, senza dubbio.
Ma c’è dell’altro, c’è il mistero al quale non posso fare a meno di pensare quando sollevo lo sguardo verso il Crocifisso che sta nel mio studio. Viene dal laboratorio del carcere, mi impedisce di dimenticare i detenuti. Le loro sofferenze e le loro speranze sono sempre con me. E riguardano ciascuno di noi».

Sabato 27 giugno nel carcere di Reggio Emilia un detenuto di nome Luigi (nome convenzionale), condannato a 30 anni di carcere, ha pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza. Nel suo gesto di donazione infatti c’è qualcosa di luminoso che porterà un po’ di luce in un ambiente abbastanza oscuro. Luigi prega ogni giorno per la salvezza dell’uomo che ha ucciso. Un’esperienza di redenzione notevole, che il vescovo, con il consenso dell’interessato, ha raccontato la vicenda al giornale Avvenire, dal quale poi hanno attinto tutte le altre testate.

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